Alcuni suggerimenti per una grafia non dolente
Caro parlante napoletano, quando ti accingi a volerne sapere di più sulla tua lingua (che è tua, non dimenticarlo, e dunque nessuno ha alcun diritto sulle tue scelte e sul tuo modo di parlare) occorre distinguere almeno tre aree: quella dei filologi e degli studiosi di grammatica storica, quella dei poeti, quella di chi parla la propria lingua tutti i giorni al solo scopo di comunicare (cioè tu).
Noterai in merito una grande confusione: il filologo si traveste da poeta e, peggio, il poeta ambisce fare il filologo ed entrambi, inconsapevolmente - si spera-, vorrebbero imporre le proprie scelte al verdummaro e all’impiegato che bestemmia, in napoletano purissimo e ipercorretto, nell’autobus impigliato nel traffico. Tutti costoro vedono la lingua napoletana come racchiudente chissà quali misteri e stemmi di nobiltà, quasi fosse diversa dalle numerose (circa 40) lingue letterarie nate in Italia. C’è, intendo dire, una qual certa presunzione di unicità. Il problema è che il napoletano è veramente un unicum.
Quando dal centro storico ti trasferisci sul Vesuvio, certamente noti una differenza di pronuncia. La cosa è normale, tanto più che l’universo fonetico partenopeo è molto, molto ampio, segmentato in orizzontale e verticale, con differenze (si chiamano “diastratica”) che non possono avere una grafia standard, tanto più per il fatto che la tua lingua è eccellente per la poesia e per il teatro ma la produzione cartacea - dalla quale enucleare regole convenzionali - è modesta. A ciò si aggiunge il fatto che i “dialetti” servono per gli “affetti”, il privato, l’immediatamente comunicabile, e il napoletano non ha una tradizione nelle discipline, p. es., giuridiche, storiche, economiche, ecc. Prova un po’ tu a esprimere nella tua lingua il teorema di Pitagora o la Costituzione della Repubblica Italiana. Lo potrai fare, ovviamente, ma sudando molto e finendo per bestemmiare in modo meticcio (non per tua incompetenza,ché questa si acquisisce con la frequentazione della lingua, ma perché non troverai in nessuna grammatica indicazioni chiare, essenziali, ma solo pedanteria e arravuogli (alias gliuommeri). Quando i cultori desiderano esprimersi in napoletano (culto, ovviamente), non fanno altro che la caricatura di opere famose (p.es. “La Divina Commedia” o “I Promessi Sposi”). Certo,Sannazaro (scusate se è poco) ha prodotto opere con elementi dialettali e stilemi latineggianti; certo, Giulio Cesare Cortese usa una lingua elegantissima; sappiamo bene che sul frontespizio di ogni lavoro in lingua partenopea andrebbe messo il nome del Boccaccio, uno dei primi ad aver scritto in napoletano. Per un poeta, comunque, questa lingua è un archivio inesauribile per i seguenti motivi:
1 è flessibile, adattabile, ricca di metafore nel parlato quotidiano
2 è perfetta per il teatro
3 trascina motu proprio il pensiero per ambulacri e corridoi imprevedibili. Ho sempre usato, in merito, l’immagine del cavallo napoletano (quello bronzeo, i cui resti sono esposti al Museo Archeologico Nazionale ed icona di Napoli e di Nettuno, il dio dei terremoti) che, se pensi di poterlo governare e farlo andare dove tu vorresti, ti disarciona: sei tu che devi seguire lui. La questione riguarda il mondo cognitivo e certamente, quando imparerai a pensare in napoletano, così come fa il popolo, capirai questo fenomeno. Osserva le persone dei quartieri popolari quando si esprimono: perché gridano e si agitano? Credo che sia il ritmo degli zoccoli di quel cavallo, furente ed agitato.
Nel mio girovagare attraverso le parlate partenopee, ho notato molte differenze non tanto fonetiche, il che è normale, quanto grafiche.
La gran parte dei problemi grafici del “napoletano contemporaneo” scritto possono sintetizzarsi in poche questioni, che elenchiamo indicando le nostre, e solo nostre, scelte:
j è scomparsa; va bene i.
r e d vengono usate indifferentemente, con prevalenza, nel parlato, di r (rice vs. dice).
l’apocope iniziale ( es. ’nzisto) non si usa più e, non essendo elemento morfologico, si può evitare di segnalare la caduta di una lettera iniziale (nzisto). Se, poi, vuoi far vedere che la sai lunga, puoi lasciarla (es. a appiccià vs a ’ppicià). L’accento circonflesso nun se porta cchiù. Qui occorre precisare e sfrondare: ll’addore, ’e argiento puoi scriverle, con una qual certa eleganza, âddore, ârgiento. Le preposizioni rinto, areto, sotto, ncoppa, abbascio,mmiezo,ecc., sembra che siano seguite, nel parlato, da a,o,e, che andrebbero segnalate col circonflesso.La cosa non è chiara. Molti autori optano per rint’ ’o lietto, aret’ ’a porta, sott’ ’e llenzola, ncopp’’ o libbro, ecc. Va bene così, non ci facciamo problemi. Diversamente, alcune preposizioni evidenziano con chiarezza nel parlato i successivi a,o,e, per cui p’ adderet’ a ’a porta, pe ncopp’ a ’a fenesta, si scrivono p’adderet’â porta, pe ncopp’ â fenesta.
Alcuni monosillabi (cu, ccà, è, …..) prevedono, secondo la grammatica storica, il raddoppiamento della consonante seguente ma noi sappiamo che tu raddoppi il suono anche se, anziché "cu cchesta" trovi scritto "cu chesta". Lo stesso vale per altre parole che iniziano per b,g: tu pronunci " ’e bbastimiente" anche se vedi scritto "’e bastimiente". Il senso della frase ti dirà se " ’e bastimiente" è un nominativo, accusativo o un genitivo (es. "parteno ’e bastimente" vs." è na fune ’e bastimiente"). Del resto, se dici "vaco a Napule", che fai? Scrivi "vaco a Nnapule"? Dunque, ai fini della leggerezza e semplicità, e anche per non appesantire una grafia già di per sé scippiata da apocopi, aferesi, apostrofi, nonché piena di cicatrici, vorremmo che tali raddoppiamenti non fossero incisi nella scrittura.
Ca ha funzione dichiarativa ("isso ha ritto ca" = egli ha detto che) o, talvolta, di pronome relativo ("isso ca è ghiuto" = lui che è andato).Puoi scrivere " isso c’ ha ritto", ma " isso ca è ghiuto" o lo lasci così o usi il suono k : "isso ch’è ghiuto", altrimenti si capisce " isso ci è ghiuto", lui ci è andato.
cu: cu ’e mmane o ch’ ’e mmane,La prim forma è un po' datata.
ll (gli, le), ddio, rre, ’o bbì’, a ppère, ddoie/dduie, sono proprio doppi, forti nella pronuncia e talmente codificati in ogni posto di Napoli e provincia che, se non li scrivi così, non vengono subito riconosciuti. Il verdummaro di cui sopra, interrogato da me se fosse corretto scrivere Rre anziché Re, non ha avuto dubbi: Rre (accompagnandosi con una certa enfasi data l’importanza del lemma).
Il condizionale e il congiuntivo vengono usati indifferentemente. Noi siamo orientati per il congiuntivo, come avviene nella lingua latina, che è la base della nostra, e che non usa il condizionale. Lo stesso fa il popolo. Il condizionale appare come un contagio dell’italiano se non proprio come ambizione di appartenere a una classe colta, il desiderio di uno status. Lo trovi molto usato nelle opere di Eduardo che, notoriamente, rappresentano problematiche e desideri piccolo-borghesi.Due esempi di canzoni antiche: "vulesse addiventare sorecillo"," vurrìa ca ì’ fossi ciaola". Chi conosce il “sorecillo”, animalepopolare e da masseria, usa il congiuntivo; chi l’elegante ed aulica “ciaola” usa il condizionale. Senonché, nel testo della “ciaola”, nei versi seguenti il condizionale cede il posto a molti congiuntivi. Dicci tu, lettore, se, con "vurrìa" (che conosci per la canzone "ì’ te vurrìa vasà" – ma l’autore ha usato "vurria" forse per questioni di metrica). Immaginiamo una scenetta: il nostro impiegato scende dall’autobus e va dal verdummaro a fare la spesa. L’impiegato sospetta che il verdummaro faccia la cresta sul peso. Che gli direbbe? " Ue’, tu me vulisse piglià pe culo?",oppure "Ue’, tu me vularrisse piglià pe culo?". E che dire di quando vediamo una bella ragazza camminare per strada come una papessa? Che diciamo al nostro amico dandogli di gomito? "M’’a faciarrìa" o "m’’a facesse"?
il futuro indicativo si costruisce in modo semplice: tema verbale (es. andare, ì ) + il futuro del verbo avere (avè):i-avarraggio, cioè avarraggio (a) ire. Anch’esso è molto poco usato (solo da persone molto anziane o da altre con atteggiamento chic). Il futuro indicativo non è quasi mai usato preferendo i napoletani attualizzarlo al presente ("rimane aggi’ ’a ì a Napule" vs. "rimane vaco a Napule").Quell’ " avè ’a" (avere da) con l’implicito senso di “dovere” ci fa forse capire qualcosa di più sulla nostra indole che, non usando il futuro, sembra averlo abolito perché, come asseriscono Budda ed Epitteto, cca se campa iuorno pe ghiurno. Ma questa è un’altra storia, che riguarda l’ etica e la psicologia.
Senza nulla a pretendere.
Mimmo Grasso
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Interessantissimo e prezioso, questo articolo. Grazie.
RispondiEliminaGrazie a lei per l’attenzione.
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